MILANO – 17.02.2019 – Quindici anni senza Pirata.
L’anniversario della morte di Marco Pantani è stato uno dei refrain della settimana. Il tragico San Valentino in cui il corpo del campione di ciclismo fu trovato senza vita nella stanza d’un residence di Rimini, con il volto segnato e la cocaina accanto, è ancora oggi un evento vivido nella memoria dei tifosi e degli sportivi italiani. Il carisma e la classe, le imprese sportive e i tonfi della vita l’hanno reso un personaggio immortale e la sua storia, anche per via dei lati oscuri che ancora aleggiano sulla sua morte, è sempre d’attualità. Tra le persone che più gli sono state vicine, sino al tragico epilogo, c’è la verbanese Manuela Ronchi, manager ma anche amica e confidente, una sorte di sorella maggiore. Di Pantani e di tutto ciò che accadde in quella notte di Rimini ha sempre voluto parlarne il meno possibile ma stamane, ospite del giornalista Stefano Meloccaro alla trasmissione Sky Sunday Morning, s’è lasciata andare in ricordi e aneddoti, sia dei momenti belli, sia di quelli più bui. “Di una cosa sono assolutamente certa: non voleva uccidersi” – ha detto toccando l’argomento più delicato del caso-Pantani, archiviato come suicidio. “Mai creduto che voleva farla finita. Spero che si faccia luce una volta per tutte, che si chiariscano i tanti dubbi –io per prima ne ho avuti e continuo ad averli– ma che lo si faccia con delicatezza”.
“Posso testimoniare in prima persona che Manuela voleva bene a Marco e che quel sentimento era ricambiato”, ha aggiunto l’altro ospite in studio, il giornalista Ivan Zazzaroni, che in quegli anni aveva una frequentazione diretta con Pantani e con altri sportivi di primo piano: “In realtà Marco era morto a Madonna di Campiglio…”, ha rivelato evocando il clamoroso episodio del 5 giugno 1999 quando, in maglia rosa e con il Giro ormai in tasca, il Pirata fu bloccato 15 giorni perché aveva il tasso di ematocrito nel sangue sopra il 50%. Quella l’ha sempre considerata un’ingiustizia, un complotto, e da lì è iniziata la sua spirale nera, sfociata nell’uso di cocaina. “Abbiamo fatto di tutto per aiutarlo a uscirne – ha spiegato Ronchi –, abbiamo vissuto mesi a Saturnia facendo i contadini, l’ho portato nell’estremo nord perché isolandosi si potesse ritrovare. Allora la pressione mediatica su di lui era fortissima e alla fine non l’ha retta”. Incalzata da Zazzaroni, che ha aiutato la verbanese a vincere la ritrosia a parlare di un personaggio che ha molto inciso anche nella sua carriera –in realtà l’ospitata a Sky avrebbe dovuto essere incentrata sul suo ruolo di Ceo della Action Agency –, ha svelato altri aneddoti. “Ho imparato tanto dal Panta. Nel mio ufficio, dietro la scrivania, ho la maglia che mi regalò nell’anno che vinse Giro e Tour e che ha una dedica speciale. Fatico a credere che sia morto; a volte gli palro assieme. E la mia agenzia è strutturata sulla sua filosofia”. Una filosofia di leadership rivelata in un episodio particolare, il Giro d’Italia del 2000, quando Pantani partecipò in extremis nel team costruito perché il capitano in quella corsa fosse Stefano Garzelli. “Quando Garzelli andò in difficoltà al Colle dell’Agnello – ha ricordato Ronchi – lui lo spronò e l’aiutò a contenere gli avversari (il giorno dopo prese la maglia rosa e vinse la corsa, ndr). In albergo gli dissi che aveva fatto una cosa straordinaria. Mi rispose che se vuoi che i tuoi gregari lottino alla morte per te tu devi farlo per loro. Io, nel lavoro, la penso ancora così”.
Un lavoro che è difficile da definire: “una parola esatta non c’è, ma manager non mi piace. Diciamo che faccio talent scouting e marketing e che gestisco l’immagine dei clienti”. Clienti famosi, a partire da Max Biaggi, che fu il primo. “Quando iniziai a seguirlo comprai Moto Sprint per capire com’era il Motomondiale…”. Poi Pantani, Alberto Tomba, la pallavolista Maurizia Cacciatori e anche alcuni calciatori, come Marco Tardelli. “Nel mondo del calcio contano molto i procuratori e spesso un ruolo come il mio è marginale. E, poi, ho una caratteristica particolare: dico sempre quel che penso, anche se può sembrare scomodo. Il cliente non ha bisogno di quei professionisti che chiamo tappeti persiani”. Pochi calciatori, dunque, anche se con uno –Demetrio Albertini– ha aperto una società diventando partner in affari.
Nel mondo della comunicazione globale, istantanea e multimediale, tutto è frenetico, soprattutto grazie ai social network. “Come azienda stiamo uscendo dai social network, e penso lo farò anche personalmente – ha spiegato –. I social non ti danno niente e ci sono nuovi strumenti da esplorare”.