BELLINZONA – 06.10.2019 – Sui frontalieri
la Svizzera ha pronto un piano B. A pochi mesi di distanza dalle elezioni che hanno rinnovato il Gran consiglio (il parlamento della repubblica del cantone Ticino) torna alla ribalta il nodo del nuovo sistema fiscale dei frontalieri. Era il 2015 quando il governo italiano (premier Matteo Renzi) concluse con la Svizzera l'accordo internazionale che, superando i patti del 1974, rivedeva il sistema con cui i lavoratori impiegati in Svizzera -ma residenti entro i 20 chilometri dal confine- pagano le tasse.
Da 45 anni le imposte vengono incamerate in toto dalla Svizzera, che ne riversa una quota (il 38,8%) all'Italia, il cui governo in parte la ripartisce tra gli enti locali in cui risiedono i lavoratori, che -da par loro- non presentano la dichiarazione dei redditi in Italia.
L'intesa, vecchia ormai di quattro anni, prevede che -una volta a regime, dopo un passaggio progressivo di anno in anno– la Svizzera incameri il 70% delle tasse, non retroceda nulla e demandi all'Italia, secondo le proprie norme, l'imposizione fiscale sul rimanente 30% dei redditi.
Per parte elvetica l'intesa è valida, ma sul fronte italiano no perché, trattandosi di un accordo internazionale, va ratificato dal parlamento. Che non l'ha mai fatto. I governi Renzi e Gentiloni, anche avvicinandosi le elezioni politiche del 2018, hanno temporeggiato e l'esecutivo giallo-verde M5S-Lega di Giuseppe Conte ha apertamente deciso di non andare avanti. Del resto in ballo ci sono le sorti dei 60.000 frontalieri di Piemonte e Lombardia (forte bacino elettorale leghista), ai quali lo status quo sta bene e che temono la novità, anche se i suoi effetti concreti sulle buste paga non sono stati ben chiariti del tutto.
Ecco che, forse anche perché al governo è tornato il Pd sotto le cui insegne si concluse la trattativa, il Ticino inizia a farsi sentire di nuovo. In settimana il presidente del Gran Consiglio, nel corso di un incontro istituzionale, ha stigmatizzato l’”assordante silenzio” italiano e ha lanciato una provocazione. Se non si arriva un dunque – ha detto Claudio Franscella – da parte svizzera c'è l'ipotesi di dar seguito alla petizione firmata da oltre 10.000 ticinesi per chiedere la disdetta unilaterale dell'accordo del 1974. Con ciò la Svizzera chiederebbe una compensazione finanziaria di 12 milioni di franchi per ogni anno perso da quando l'accordo è stato concluso ma non attuato. Dodici milioni di franchi è la quota annuale che il Canton Ticino incasserebbe in più.