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VOGOGNA - xx-12-2019 - Gli anni Dieci

vanno in archivio, un decennio complicato caratterizzato da una crisi economica che ha inciso in tutti i settori della vita pubblica e nella stessa vita dei singoli cittadini. A concludere il decennio svolte politiche inimmaginabili solo dieci anni fa e una comunicazione senza ormai più filtri, nenache quelli della buona creanza. Abbiamo chiesto di tracciare un bilancio di questi due lustri, sia in chiave locale sia in chiave più generale a Enrico Borghi, che come sindaco di Vogogna e come parlamentare del territorio è stato al centro dell'agone politico nel decennio andato e che dal seggio a Montecitorio è già proiettato in quello che arriva.

Com’è cambiato il territorio?
“Gli anni ‘10 del Duemila saranno ricordati come l’atterraggio sul territorio di quelli che Aldo Bonomi chiama i flussi globali. La tecnologia è entrata prepotentemente nelle nostre vite, impattando e modificando la consuetudine dei luoghi. Cursolo Orasso è forse la metafora di questa stagione. Il piccolo paese della Valle Cannobina non ha più negozi di prossimità, ma è nella vetta delle classifiche nazionali per acquisti on line. E’ l’emblema della metaformosi sociale e della capacità di adattamento tipica di noi Italiani. E’ una vicenda che ci dice che non dobbiamo avere paura del cambiamento, ma governarlo. E che nella vita non sono le forme a contare, ma la sostanza”

Com’è cambiata la nazione?
L’Italia degli anni Dieci è come una nobildonna che immagina di fare i conti con l’incedere degli anni tentando di tornare agli sport giovanili. Pensiamo che saranno gli strumenti del passato (sovranismo, nazionalismo, sfoggio dell’egotismo patrio) a risolverci i problemi dell’oggi e del domani. Certo, la crisi di questi anni (economica, produttiva, valoriale) ci ha destrutturati nel profondo. E ci siamo illusi che la retorica del “vaffa” sostituisse lo sforzo collettivo di fare i conti con un modello di crescita, fatto di debito e di produttività bassa, che non reggeva all’impatto con la globalizzazione. Ora che il “vaffa” si risolve per quello che è, e cioè un urlo sterile e improduttivo, ci accorgiamo che siamo ad un crinale, decisivo e pericoloso al tempo. Da un lato, c’è la strada per modernizzare il nostro sistema, superando le condizioni di quella che Ricolfi ha definito “la società signorile di massa” che fonda le proprie basi su fenomeni socio-economici in via di estinzione. Dall’altro, se ci chiudiamo nella retorica di noi stessi, c’è la strada del declino: senza agire, in 15 anni avremo tanti giovani in meno e tanti anziani in più... Siamo dentro uno tsunami demografico, e non ci vuole molto a capire che una società così non può reggere. Per questo abbiamo bisogno di coesione, innovazione, voglia di futuro: altro che porti chiusi e muri alti. Tutte le fortezze, prima o poi, sono state espugnate. Se non ci pensiamo fortezza assediata, ma nodo di una rete, allora potremo farcela”

Come siamo cambiati noi?
“Siamo certamente più disillusi, più arrabbiati, più soli. Ma ho la sensazione che il rancore stia passando di moda, e al livore si stia sostituendo una nuova speranza. Vedere le piazze italiane che si riempiono, sotto il diluvio, di ombrelli per manifestare una idea di solidarietà e di libertà è un segno che induce a pensare che forse una stagione, quella di un nichilismo e liberante “vaffa”, inizia a declinare. Certo, l’incertezza oggi è lo stato d’animo dominante, e non c’è più relazione tra occupazione e ricchezza. E come se vivessimo una sorta di stress post-traumatico, che ci induce a chiuderci su noi stessi. I luoghi della socializzazione vengono per lo più disertati: le chiese si svuotano, i circoli si riempiono solo di anziani, i giovani li intercetti solo sui social, mentre una domanda dell’uomo forte (che è tipica dei momenti storici di transizione e di difficoltà) si alimenta. Però, dentro gli spazi vuoti delle responsabilità collettive e nella crisi ormai strutturale della rappresentanza, secondo me ci sono diversi segnali che ci parlano di una contrapposizione degli Italiani a una prospettiva di declino. Non solo in fenomeni di cronaca come le “Sardine”, ma anche nella partecipazione silenziosa di tanti -anche giovani- al volontariato, al terzo settore, all’impegno civico.E’ quello il lievito per evitare che il livore diventi disperazione, e che venga sostituito da una speranza di un futuro giusto. E questo -se posso fare un’incursione politica- è anche un interrogativo per il mio partito, il Pd. Che deve rispondere ad una domanda: di fronte a questo protagonismo, che mira a creare una alternativa sociale al sovranismo e alla chiusura, come rispondiamo? Io credo si debba rispondere con una iniziativa generosa, di apertura, di rifiuto al metodo burocratico, mettendo in discussione noi stessi anzitutto e la nostra forma-partito. A questo dovrebbe servire un nuovo congresso, non ad una sfilata di nomenclatura che elude il nodo sociale e storico di fondo.”

Com’è cambiato il VCO in questi 10 anni?
“Se guardiamo i titoli dei capitoli dell’informazione, potremmo concludere che sono stati 10 anni di stagnazione. Quali erano i problemi del 2010? Sanità, infrastrutture, rifiuti, polverizzazione amministrativa (con relativa incapacità di governare i processi), contrapposizione endemica e campanilistica tra le tre sub-aree... Quali sono i problemi di oggi? Esattamente gli stessi! Quando abbiamo avuto il “golden moment” (e cioè il filotto di governo a tutti i livelli), noi del Pd abbiamo provato a risolvere strutturalmente i nodi, sia pure con errori, ritardi e timidezze che hanno pesato nel processo. L’ospedale unico e nuovo, l’autonomia provinciale, il riordino amministrativo comunale, la strategia delle aree interne in Ossola erano -e sono- pezzi di un disegno riformatore che prendeva atto dell’impossibilità di aprirci al futuro lasciando immutato l’esistente. Ora viviamo una stagione di riflusso, nella quale la parola d’ordine della Lega è sostanzialmente il ritorno al passato, all’esaltazione della frammentazione, al piccolo è bello, al “com’era verde la mia valle”. La realtà si incaricherà di spazzare via questo espediente retorico che può anche essere suadente e rassicurante, ma è come una ninna-nanna... alla fine il mondo va avanti e non si ferma, e le chiacchiere di impossibili ritorni al passato stanno a zero. E la realtà ci dice che oggi la nostra provincia, un tempo luogo di eccellenza per industria e manifattura, è ai margini dei processi di sviluppo. Automazione, robotica e intelligenza artificiale hanno cambiato l’impresa e il lavoro, e si concentrano in luoghi ben definiti che fanno da polo attrattivo anche per noi: Milano, l’Emilia, la Svizzera sono aree a maggiore attrattività, e noi ci stiamo silenziosamente “svuotando” di giovani professionisti che dopo la laurea vanno giustamente alla ricerca di opportunità e prospettive. Siamo la provincia più anziana del Piemonte, e non possiamo non avvertire già oggi l’enorme peso della nostra dimensione sociale che grava sul sistema di welfare, in un contesto nel quale il sistema formativo ha spento la sua capacità di propulsione (che andrebbe rilanciata con il ruolo dell’Università e dei centri di ricerca nel VCO legati alla tipicità del territorio come ambiente e montagna) e nel quale il ceto medio produttivo è sotto pressione costante. Oggi i territori si dividono tra “aree attrattive” e “luoghi del ripiegamento”: ecco, noi con il nostro annoso, stucchevole e sterile dibattito sulla sanità diamo l’impressione di arrenderci ad un ripiegamento nel quale ci si arrende ad una dinamica di declino e ci si accapiglia su ciò che resta. Una prospettiva alla quale occorre ribellarsi, e anche in fretta”.