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morabito covid

VERBANIA - 18-04-2020 -- In un medico convivono

la razionalità della scienza e il sentimento umano. Dietro il camice e a un lavoro che richiede analisi obiettiva, rigore e precisione, c’è una persona che vive aspettative, gioie, dolori, successi e delusioni. Che si anima di emozioni, proprie e di quelle dei pazienti con i quali viene in contatto. La testimonianza che riportiamo di seguito è della dottoressa Daniela Morabito, medico geriatra dell’Asl Vco che, in quest’emergenza sanitaria, è stata assegnata al reparto Covid-19 allestito all’interno della Medicina dell’ospedale “Castelli”.

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Hanno appeso uno striscione sul cancello dell’Ospedale di Verbania. Non è la solita proclamazione di uno sciopero, non sono parole di protesta. C’è scritto: “Grazie a tutto il personale medico che ogni giorno rischia la vita per salvare la nostra”. Lo vedo mentre, di corsa, arrivo per fare il turno di notte, il quinto in due settimane da quando sono stata assegnata nel reparto dove sono ricoverati i pazienti affetti da Covid-19. Fino ad allora ero un medico geriatra che, da anni, lavorava prevalentemente in ambulatorio. In ospedale mi limitavo a qualche consulenza e mi occupavo di malattie croniche, in particolare di persone con demenza. L’emergenza ha determinato una carenza di personale sia perché alcuni medici sono risultati positivi al test SARS-COV 2, sia perché i malati sono aumentati in modo repentino nel giro di pochi giorni e si sono dovuti aprire nuovi reparti interamente dedicati alla gestione di questa patologia e quindi è stato reclutato anche il mio Servizio. Rapidamente abbiamo dovuto acquisire tutte le conoscenze e competenze utili, riabituarci a lavorare in un reparto ed in un contesto di emergenza. Quelli che vengono ricoverati hanno una forma di polmonite interstiziale che determina quadri di insufficienza respiratoria grave che spesso peggiora fino a necessitare trattamenti di ventilazione non invasiva e invasiva. Per molti l’accesso alla terapia intensiva è precluso dall’età e dalla presenza di altre patologie associate, per scelte che sono derivate dalla mancanza di risorse e di posti. Tanti, non ce la fanno. I familiari non possono entrare nel reparto e quindi può capitare che, dopo il ricovero, non rivedano più i loro cari

Questa l’esperienza che mi porto dentro quando arrivo in ospedale e mi fermo davanti a quella scritta. Mi commuovo, mi sembra una carezza per alleggerire le fatiche che devo affrontare, per darmi forza. Tante altre volte, negli ultimi giorni, mi sono commossa e ho anche pianto. Alcune volte perché mi sembrava terribile ed inaccettabile quello che stava succedendo: le sofferenze ed i dolori che vedevo in ospedale, il non potere dare un bacio ai miei figli e i miei genitori per paura di essere fonte di contagio, la solitudine spettrale dei meravigliosi luoghi in cui vivo tra il lago Maggiore, il Lago d’Orta e la Val d’Ossola dove, la natura, apparentemente indifferente ed in contrasto con quello che sta accadendo, continua ad andare avanti proponendoci i suoni ed i colori della primavera. Ma forse, più spesso, il pianto è stato per lo stupore e la consolazione davanti a manifestazioni di gratitudine e a gesti di solidarietà inaspettati. Quanti grazie e riconoscimenti per il nostro lavoro (anche a me che mi sentivo così inadeguata!) ho sentito al telefono dai familiari in quelle brevi conversazioni in cui li aggiornavamo delle condizioni dei loro cari, anche se spesso le notizie che potevamo dare non erano positive. Ed ho pianto di gioia davanti a prove concrete dell’esistenza della Provvidenza! Ci avevano detto che stavano finendo i camici monouso idrorepellenti con cui ci proteggiamo per entrare nell’area infetta ed eravamo tutti molto preoccupati, sia medici che infermieri. Dopo poche ore vengo a sapere leggendo il giornale che il proprietario di una fabbrica di cioccolato di Verbania (il nostro Willy Wonka) lo aveva saputo e, oltre ad una considerevole quantità di cioccolatini, avrebbe mandato anche i camici per noi. E ancora, dopo la prima settimana in cui siamo rimasti quasi senza mangiare e bere durante il turno di lavoro, un giorno, sudati, estenuati dopo avere fatto il giro dei malati con le nostre bardature protettive (cuffia, visiera, camice o tuta, guanti), abbiamo trovato acqua e panini offerti dai negozianti della città a ristorarci.

E, in questo momento, diventa motivo di emozione forte e positiva anche vedere come tra colleghi si sia riscoperta una solidarietà, un sostegno reciproco che non avevamo mai sentito così intensamente. Sono diminuite le lamentele, paradossalmente c’è molto meno burn out di prima anche se siamo tutti sconvolti da quello che vediamo e viviamo. Sono arrivati medici volontari e ognuno, anche il più inesperto, aiuta per quello che può.

Vado dentro l’ospedale, allora, e anche se è notte non mi sento sola, ho un po’ meno paura e spero. Spero che arriveranno meno pazienti perché ognuno sta facendo la sua parte anche solo rimanendo a casa; spero che con i nuovi schemi terapeutici che stiamo usando ci saranno più persone che migliorano e guariscono (negli ultimi giorni abbiamo avuto la grande gioia di dimettere alcuni pazienti: è stata una festa per tutti!); spero che non dimenticheremo il dolore di questo tempo ma anche le cose importanti e belle che stiamo

vedendo; che non perderemo quella forza che ha tirato fuori in noi questa esperienza; e spero che rimarrà sempre forte, come adesso, il desiderio di abbracciarci, di un abbraccio profondo che contenga tutto il bene che, più di prima, sentiamo di volerci e tutto il bisogno, rafforzato nei tempi del distanziamento sociale, che abbiamo gli uni degli altri.

Daniela Morabito