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gnemmi marcovinicio

OSSOLA- 18-07-2020-- Museo Immaginario ed Ecole des Italiens ricordano Dario Gnemmi a 15 anni dalla scomparsa con una foto che lo ritrae con il pittore Marcovinicio nel suo giardino, immaginato e realizzato in via Scapaccino n. 18 a Domodossola: "Chissà se è lecito avere come maestro un uomo che non è più, che non si è mai conosciuto, Dario. Dario, ti ho incontrato scrivendo la placca, quasi un’epigrafe che sosta al principio di Vigezzini di Francia. Citavo Boris Pasternak, il poeta della malinconia e della memoria, dei gesti semplici che percuotono eternamente le tremanti stanze dei vivi, le legioni dei morti, gli scudi sotto cui si riparano dal gelo delle lacrime, dalla grandinata delle preghiere.

Cercavo legami tra Domodossola e Pietroburgo, sentimentali e di follia. Il muso allucinato di Boris si sovrappone a quello da satiro, invidiabile, inviperito di Carlo Fornara, all’ambigua ombra di Lorenzo Peretti Junior e alla docile bellezza di Gian Maria Rastellini. Di certo tu, Dario, hai costruito Tahiti nell’alveo della tua abitazione, un giardino dei primordi, dove riuscire, senza il balzo di Gauguin, a sorbire radiose ispirazioni. Di generosità e di fuga, inesausta e inesplicabile, è fatta la stoffa dei pittori vigezzini, l’ho imparato da te. I più scaltri miravano a Parigi, altri sceglievano Lione; Fornara, prima di scoprire che l’unico “altrove” era sempre e soltanto nella ruvida, matrigna Prestinone, se ne partì per l’Uruguay. I tuoi scritti, Dario, degli “altrove” letterari, lucidi e labirintici, fitti di mietiture letterarie che mi lasciano, sempre, con la lingua annodata. Come il tuo giardino, Dario.

Il giardino come replica della tua mente; le radici compongono l’arazzo del cuore, ogni sentimento possibile – eternità vegetale resa fotografia ferrea, come se rivedessimo il tuo volto, nella retina di un più ardito Arcimboldo. Recentemente sono stato a Ortigia, il frammento nobile, supremo, quasi un orecchino, di Siracusa. Estrema ricerca di estremità, di insidiosi altrove in cui incunearsi timorosi del “per sempre”, desiderando la morte come sospirato sigillo della vita – che nei vivi lasci paludi di dolce malinconia. Enormi alberi dalle radici a cielo aperto, ho visto, come in preghiera, come se fosse il cielo a nutrirli, e avessero i polmoni. Poi radici, capperi, falangi di rosmarino, crescere sui muri delle case, spaccare la pietra. Ancora qualche decennio e il piccolo ciuffo avrà ragione della costruzione umana, facendo leva con le sue piccole radici inaugurerà il crollo. Ne ho intravisto un segno: non c’è distanza di dialogo tra vivi e morti, semplicemente, altra postura. «Io sono già morto e tu vivi ancora.

E il vento, con gemiti e pianto, fa oscillare il bosco e la dacia. E non per proprio conto ogni pino, ma tutti insieme gli alberi nella loro distesa sconfinata, come armature di velieri sulla superficie d’una baia. E non per tracotanza o per vano furore, ma per trovare nell’angoscia le parole d’un canto di culla per te». Questa poesia di Pasternak, in calce al Dottor Zivago, s’intitola Il vento. Forse è il canto di un morto rivolto ai vivi, potresti redigerla tu. Invece, te la voglio dedicare, riscrivendola, come se fossero i vivi a dover consolare i morti, a cullarli. Lasciando smarrire ogni rancore dai loro cuori, ogni paura: affinché l’incontro sia più felice, alla fine dei tempi, e sapremo riconoscerci. Con te ho dialogato riparandomi nei tuoi scritti, nella loro ombrosa pagoda. E se le piante fossero richieste, bocche di morti da ascoltare? Più di tutto, in fondo, desidererei sedermi nel tuo giardino, mentale prima che reale, e lì scriverti una lettera, questa".

Davide Brullo