VILLADOSSOLA- 02-09-2021-- Si trova da questa mattina in una delle frazioni di Villadossola la prima famiglia afghana ospitata in Ossola. Siamo stati ad intervistarla per farci raccontare la loro drammatica storia. Ci ha accolti Mortaza che, insieme alla moglie Shakiba e ai due bimbi Taha e Sedna, ora si trova al sicuro nel nostro paese.
Dei circa cinquemila profughi afghani siete la prima famiglia ospitata in Val d’Ossola. Vi sentite al sicuro qua?
“In Afghanistan ero minacciato quotidianamente dai talebani: lavoravo in una ditta di armi con sede ad Herat, nella regione sotto il controllo dei militari italiani. Sono laureato in agraria ma da anni mi occupo di sicurezza informatica. Mia moglie è un insegnante elementare, nelle sue classi c’erano alunni di sesso maschile. Ai talebani questo non andava bene, in quanto donna, avrebbe potuto insegnare solo alle bambine. Qua non sento spari, la mia vita è al sicuro”.
Raccontateci la vostra storia familiare, quanti siete? Siete scappati tutti insieme?
“Siamo in quattro, papà mamma e due figli, in Afghanistan ci sono i miei genitori e mio fratello. Purtroppo chi non ha collaborato direttamente con l’Occidente non ha potuto lasciare il paese. I genitori di mia moglie invece ora si trovano in Germania”.
Abbiamo tutti negli occhi le immagini drammatiche dei voli cargo stipati di persone e il tentativo estremo di salvarsi agganciati ai carrelli degli aerei. Da quanto tempo avete percepito il pericolo imminente?
“La situazione è precipitata nelle ultime settimane. Prima le minacce erano frequenti ma i militari avevano il controllo della regione”.
Dopo vent’anni di occupazione tornare alla situazione di uno stato in cui vige la Sharia immagino possa essere stato traumatico: non solo per le donne che verranno escluse dalla vita pubblica ma per tutti. Come vi siete sentiti?
“La paura è iniziata un mese fa circa, quando i talebani hanno preso Herat (12 agosto, ndr). Noi ci siamo subito rifugiati fuori città nel villaggio di mia suocera, siamo stati la un paio di giorni poi ci siamo dovuti spostare. A causa del mio lavoro ero facilmente rintracciabile”.
Purtroppo dovendo fare una scelta si è deciso di proteggere le persone che avevano collaborato con lo Stato Italiano. Qual’era il vostro ruolo a Kabul? Come siete entrati in contatto con l’Ambasciata italiana?
“Io lavoravo da anni come informatico in un’azienda italiana di armamenti con sede ad Herat. Circa venti giorni fa ho contattato l’ambasciata italiana e ho trasmesso loro i miei documenti. Qualche giorno dopo, nella notte, mi hanno convocato all’aeroporto di Kabul (dove avevano sede le ambasciate nel periodo convulso degli ultimi giorni, ndr)”.
Quando avete lasciato l’Afaganistan? Quale sono state le tappe del vostro viaggio e come è stata l’accoglienza in Italia?
“Abbiamo lasciato l’Afghanistan alle 17.30 di giovedì 26 agosto a bordo di un C-130 (velivolo cargo dell’aeronautica militare italiana, ndr) che ci ha portati fino a Kuwait Ciry. Un’ora prima dell’attentato in cui hanno perso la vita una ventina di soldati americani. Da lì con un volo civile siamo arrivati all’aeroporto di Fiumicino venerdì mattina. Il giorno successivo novantatré di noi sono partiti alla volta di Torino Caselle per essere redistribuiti in Piemonte”.
Che cosa si aspetta dall’Italia?
“Mi piacerebbe vivere in una città metropolitana dove poter lavorare e ricompensare l’Italia che ha salvato la mia vita e quella della mia famiglia. Vorrei imparare al più presto l’italiano e garantire un’istruzione ai miei figli”.
Che cosa ne sarà, infine, dello stato afghano dopo l’occupazione dei talebani?
“Talebans aren’t humans, i talebani non sono umani, non usano la testa: usano solo le armi”.
Eugenio Lux