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CASTELLETTO T. - 23-09-2024 -- Quasi cinquant’anni sono trascorsi da quel caso di cronaca che scosse l’Italia e arrivò sino a lambire il Lago Maggiore. Per il sequestro e la morte della diciottenne Cristina Mazzotti, incarcerata e spirata in una buca d’un garage alla periferia di Castelletto sopra Ticino e il cui corpo venne trovato due mesi e mezzo dopo nella discarica di Galliate, oggi s’è aperto al tribunale di Como un nuovo processo.

Alla sbarra ci sono i quattro presunti mandanti di quel rapimento, il primo di una donna che avvenne nel nord Italia. Dopo una lunga inchiesta, il gup di Milano ha accolto le richieste della Procura antimafia e ha rinviato a giudizio quattro uomini -di età compresa tra i 68 e i 79 anni- di origini calabresi ma trapiantati tra le province di Novara e di Varese, ai quali i magistrati sono arrivati nel corso di un’altra inchiesta sulla ‘ndrangheta in nord Italia.

È il secondo processo per quel fatto. Nel 1977, in primo grado al Tribunale di Novara, vi furono 13 condanne, tra cui otto ergastoli, per custodi, centralinisti, intermediari e complici. La Corte d’Appello ridusse gli ergastoli da otto a quattro, che diventarono tre con la definitiva sentenza della Cassazione.

Cristina Mazzotti, di diciotto anni, studentessa liceale, era figlia di un facoltoso industriale del settore cerealicolo.

La sera del 30 giugno del 1978, dopo aver festeggiato con gli amici la promozione in terza liceo e la maggiore età raggiunta, stava rientrando da Erba nella propria abitazione di Eupilio, nel Comasco, in compagnia di un’amica e del fidanzato, che era al volante. La loro Mini Minor fu fermata in un blitz portato a termine da quattro uomini a bordo di due vetture: un’Alfa Romeo Giulia e una Fiat 125. Cristina venne portata via mentre amica e fidanzato, legati e imbavagliati, furono portati con la loro auto ad Appiano Gentile dove, liberatisi, diedero l’allarme.

La ragazza, nel frattempo, aveva già varcato il Ticino, sino alla cascina Padreterno, in località Buzzurri di Castelletto, dove era stata ricavata, all’interno di un garage, una stretta buca con pareti di cemento. Profonda meno di un metro e mezzo, larga altrettanto e lunga due metri e sessantacinque centimetri, veniva approvvigionata d’aria con un tubo di plastica. Fu il suo luogo di carcerazione per 27 giorni. Sedata col valium e provata, collassò e morì approssimativamente il 31 luglio. Dei cinque miliardi di lire chiesti come riscatto, i genitori ne pagarono uno e cinquanta milioni. Non sapevano che fosse morte e lo scopriranno solo ai primi di settembre, al rinvenimento del corpo.

Le indagini ebbero una svolta per via di coloro che l’avevano avuta in custodia e che depositarono in Svizzera una somma in contanti eccessivamente alta, che indusse la direttrice della banca ad allertare le autorità. Una parte dei responsabili è già stata punita e ora la Procura punta a completare l’opera con gli altri quattro presunti mandanti scoperti a decenni di distanza.